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Recensione: Una cosa divertente che non farò mai più

Recensione di Cosimo Buccarella
Una cosa divertente che non farò mai più

Penso che una recensione come si deve non possa che partire dal momento in cui il lettore / recensore perviene in possesso del libro. Perché quello specifico momento può rivelare molte cose sul rapporto che il recensore ha con quello specifico libro. Il che riveste una fondamentale importanza nel valutare se e quanto ritenere attendibile l’articolo stesso.

Quello che voglio dire è che si potrebbe scegliere di diffidare da una recensione che inizi con le parole: “Ho letto tutti i libri di questo autore e mi sono piaciuti anche quelli pubblicati post-mortem e realizzati tramite un copia-incolla di appunti presi dall’autore su fazzolettini di carta usati”.
Allo stesso modo suppongo che se tutti applicassero alle recensioni la semplice regola che mi sono permesso di suggerire, l’incipit di molte di esse sarebbe: “Non mi sarei mai sognato di recensire questo libro del cavolo. Sul serio, non ha nessun appeal. Ma l’ufficio stampa dell’editore me l’ha inviato e ha insistito così tanto, che ho paura che se non gli faccio una buona recensione non riceverò più le loro copie-stampa-omaggio.”

Di “Una cosa divertente che non farò mai più” (l’oggetto di quest’articolo, dopo tutto) scritto da David Foster Wallace nel lontano 1997 o giù di lì ed edito in Italia da Minimum Fax, si è parlato diffusamente su twitter in occasione della lettura che ne ha dato l’attore Giuseppe Battiston durante il festival letterario La Grande Invasione (2013). La cosa ha attirato la mia attenzione per tre motivi: 1. Battiston mi sta simpatico. Credo che scelga bene i film da fare (e immagino quelli da non fare) e questo mi ha fatto supporre che abbia scelto bene anche il libro da leggere; 2. Mi piace, in generale, la politica editoriale di Minimum Fax; 3. Si parla sempre così tanto di David Foster Wallace che mi sento in difetto perché le mie uniche due esperienze con tale autore sono state venti pagine di Infinite Jest e ottanta de La scopa del sistema.


Con le sirene twitteriane che mi girano ancora in testa, capito un giorno in un baretto/edicola che di solito frequento. La proprietaria del bar in questione è una signora con una grande passione per la letteratura ed è per questo solita posizionare in bella evidenza (sul mobiletto che dovrebbe ospitare il registratore di cassa, ma questa del registratore di cassa itinerante in quel bar è una storia troppo lunga da essere contenuta in una parentesi, per cui mi riservo di parlarne in un’altra occasione), è solita porre in bella evidenza, dicevo, i volumi allegati con i quotidiani. Ed è così, mentre sorseggio il mio solito caffè in ghiaccio con latte di mandorla soffiato (non stupitevi se non sapete che cos’è: è una di quelle cose buonissime di cui si ignora l’esistenza senza che ciò intacchi minimamente la nostra qualità di vita. Tutti ne abbiamo un discreto numero. La maggior parte di voi, ad esempio, vive un’esistenza inspiegabilmente soddisfacente anche se non lo ha mai assaggiato. Se volete saperne di più, su Turisti a ogni costo in passato si è parlato del caffè in ghiaccio con latte di mandorla). È così, dicevo, mentre faccio tintinnare il ghiaccio nel bicchiere agitando il polso con la maestria innata per questa manovra che solo pochi possono vantare, è così che il mio occhio cade sulla copertina dell’edizione di “Una cosa divertente che non farò mai più” allegata con il Corriere della Sera. Mi aggiudico subito quell’unica copia a un prezzo praticamente equivalente a quello dell’edizione di Minimum Fax, ne sono consapevole. Tuttavia sono sicuro che se non avessi comprato quel libro in tale circostanza, semplicemente ne avrei fatto a meno. È stata la coincidenza tra le sirene twitteriane (che sono push, non pull. Me le ritrovo nella timeline senza che sia io ad andarmele a cercare) e la presenza del volume sul tavolo del registratore di cassa del mio solito bar (push: non sono andato in libreria a cercarlo, è lui che è venuto da me quasi offrendosi mentre la mia unica occupazione era far tintinnare il ghiaccio del mio caffè) che me lo ha fatto acquistare. Sono una persona facilmente influenzabile, lo confesso. Una perfetta vittima del marketing.

In tutta sincerità questo è il modo in cui sono pervenuto in possesso di una copia di “Una cosa divertente che non farò mai più”. Si tratta non di un’opera di fiction (cosa di cui ero convinto, nella mia biografica ignoranza su DFW, prima dell’acquisto) bensì di un saggio scaturito dall’esperienza di una crociera lusso sette notti ai caraibi (che abbrevierò, come fa Wallace, in 7NC) a cui l’autore ha partecipato accettando l’incarico della rivista Harper’s (mi è capitata una cosa simile, sinistramente alla stessa età in cui è capitata a Wallace. Se ne parla qui). Il suo compito era di partecipare alla crociera 7NC e di scrivere un reportage. Ma Wallace è andato ben oltre, giungendo a compiere una minuziosa analisi della crociera, della sua organizzazione, delle sue verità e delle menzogne che nasconde. Delle persone che vi partecipano e dei piccoli riti che le caratterizzano e soprattutto, e questo è l’aspetto principale del libro, soprattutto di quello che lui, David Foster Wallace stesso, prova a proposito di tale esperienza.

A quanto pare il DFW crocierista (che chiamerò DFWC per distinguerlo dal David Foster Wallace Scrittore o DFWS) si sente così responsabilizzato dalla cifra del rimborso spese che la rivista Harper’s dovrà sostenere per mandarlo in crociera lusso 7NC che s’è messo in testa di appuntare e riportare meticolosamente ogni aspetto del viaggio. Al punto che il reportage non prende avvio dalla crociera, bensì dall’attesa al molo per l’imbarco e, prima ancora, dal momento in cui il DFWS viene assoldato per il reportage. Wallace non nasconde di essere stato pagato per questo lavoro, e ci mancherebbe; ma già l’averlo chiarito come premessa di tutta l’operazione eleva l’autore di rango rispetto a ben noti “marchettari” – in Italia ne abbiamo molti esempi – che si riempiono la bocca di come la propria missione sia di fare letteratura per il bene dell’umanità, e di come le ospitate a Che tempo che fa siano un male necessario poiché l’aumento delle vendite del proprio libro corrisponde 1:1 a una crescita nel livello di cultura nazionale.

Quello che mi aspettavo da “Una cosa divertente che non farò mai più” era una disanima critica a forte contenuto di satira sociale del “popolo delle crociere” e di tutta la macchina organizzativa che muove questo genere di vacanze. Mi sbagliavo, però: il saggio è di tutt’altro tenore. Come un sociologo, Wallace osserva la sub società che prende forma nel momento in cui la motonave Zenith molla gli ormeggi, ma le sue considerazioni non sono mai ingiustificatamente caustiche. La raffinatezza di Wallace è mostrare la nudità dei turisti dinanzi a quella gigantesca macchina del divertimento (ma più propriamente dovremmo dire “del convincimento del divertimento”) che la crociera di lusso 7NC rappresenta, e mostrarla (quella nudità) senza appesantire il carico con un’inutile presa in giro. Ce la mette davanti così com’è, e quando è ridicola, grottesca o viceversa perversamente affascinante, sarà il lettore a deciderlo.

Di certo chi è stato in crociera e un po’ s’è guardato intorno scoprirà leggendo questo libro che molte abitudini, regole, tic, manie; molti intoppi organizzativi, spettacoli, corride, penose battute; molte questioni emerse a cena, difetti delle cabine, situazioni grottesche a cui ha assistito o preso parte si sono ripetute uguali uguali nella crociera 7NC di DFWC, sollevando il dubbio (che a un certo punto lo stesso Wallace fa notare) che persino le imperfezioni, nelle crociere, siano volute.

Ma aldilà delle vicende e dell’umorismo con cui Wallace le descrive, ciò che emerge in questo libro e che costringe a leggerlo avidamente fino alla fine è la simpatia umana di David Foster Wallace. Il motivo principale per leggere “Una cosa divertente che non farò mai più” diventa quindi il fatto che l’abbia scritto lui. Non è solo per l’onestà intellettuale che dimostra nel non voler fare una “marchetta”, bensì un lavoro di cuore e testa, pulito e ben fatto. Né per la mancata pretesa di obiettività (tutto in questo saggio è soggettivo, nella misura in cui Wallace non ritiene di avere verità in tasca, ma solo desiderio di cogliere l’opportunità di mostrarci ciò che vede con i suoi occhi). Non è solo per la tenerezza suscitata dall’ingenuità quasi infantile che dimostra in alcuni frangenti (come quando chiede di poter gettare il sangue delle bistecche in mare per attirare gli squali nella scia della nave, o domanda lumi sul funzionamento dell’aspirazione dei liquami dal water – alzi la mano chi non se l’è mai chiesto e la abbassi chi poi è andato a chiederlo sul serio al direttore di crociera. O ancora quando stringe con una ragazzina un’alleanza contro un’altra ragazzina francamente antipatica o quando dimostra di tenere moltissimo al titolo di mister gambe della piscina o durante la memorabile partita a scacchi contro una campionessa bambina). Non è solo quello a rendere simpatico Wallace. È che il tratto caratteriale di Wallace che più emerge dalla lettura è una rara capacità di essere buoni. Cioè (ed è una cosa che non mi aspettavo) DFWU (il David Foster Wallace Uomo) è davvero una persona buona. Dotata di quel genere di bontà che rende vulnerabili perché ci porta a parteggiare per i più deboli, e a trovarci quindi dalla parte sbagliata secondo il pensiero di molti.

Wallace si stupisce di come sulla motonave Zenith (o Nadir, come la chiama per tutto il viaggio. E chi non l'avrebbe fatto?) non si senta il rumore del motore che la sospinge. Eppure è immenso, certo; ma tutto ciò che ne rivela la presenza è una vibrazione del pavimento, così sottile che la percepiamo solo perché già sappiamo che da qualche parte c’è un motore che romba. Ma a noi giunge soltanto un rumore di fondo flebile, che riusciamo a malapena a udire, poiché si confonde con il fruscio del vento e il frizzare della spuma nella scia della nave che ci entrano nelle orecchie quando di notte passeggiamo su un ponte disperso in tutto quel mare, sotto tutto quel cielo.
Ecco, anche nella narrazione di Wallace si distingue un rumore di fondo, con-fuso tra gli aneddoti e le riflessioni. Ed è proprio questo rumore di fondo l’aspetto più vero di “Una cosa divertente che non farò mai più”. E forse questo rumore lo sentiamo solo perché già sappiamo che l’autore, nel 2008, ha deciso di togliersi la vita. Ma questo non rende meno vero che lo sentiamo, perché che cosa sono le cose che conosciamo, se non il mezzo per decodificare e reinterpretare la realtà che osserviamo?

Il rumore di fondo nella narrazione di “Una cosa divertente che non farò mai più” è una cupa disperazione. Un senso di inadattabilità al mondo, che unito alla voglia di rapportarsi con le persone anche nella consapevolezza dell’impossibilità di trovarne che siano sulla tua stessa lunghezza d’onda e con cui dialogare senza stupide interferenze, causa una miscela letale. Qui, nella resistenza al convincimento del divertimento, nell’accuratezza della descrizione delle proprie sensazioni e di un malessere interiore che a volte si gonfia come un cavallone ma più spesso assume la forma di una risacca che ti bagna i piedi e scappa via, sta il senso più autentico e profondo di quest’opera. Che è divertente. Ed estremamente triste. Che appassiona. E fa soffrire per empatia. E che forse non leggerò mai più.

  Cosimo Buccarella è autore di racconti e storie brevi, molti dei quali sono stati premiati e pubblicati in antologie.

SexOring (Bel-Ami Edizioni, Roma, 2013) è il suo primo romanzo, vincitore della sezione letteratura del Festival delle Dieci Lune 2012

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