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Parcheggi low cost

Parcheggi low-cost

Marc Augé considerava gli aeroporti tra i nonluoghi, spazi che molti frequentano e nessuno abita, zone di passaggio in cui gli individui si sfiorano senza entrare in relazione tra di loro. Quel genere di ambienti in cui si dialoga tramite un linguaggio codificato fatto di numeri su display, linee gialle da non oltrepassare e fasi da seguire in logica sequenza.

volo low-cost


L’avvento e il successo dei voli low-cost, con le loro regole e limitazioni sta rivoluzionando il modo di fruire gli aeroporti, la concezione stessa del viaggio. E non parlo soltanto di passeggeri che indossano tre cappotti uno sull’altro e si riempiono le tasche di libri, guide, tablet e aggeggi vari pur di non gravare sul bagaglio a mano impietosamente limitato a dieci chilogrammi.

vestito ryanair
Se non v'importa nulla dell'eleganza e volete fregare la Ryanair indossate questo vestito o questa giacca: si chiama Jacktogo costa una settantina d'euro...quasi quasi conviene pagare per imbarcare il bagaglio! :)
E nemmeno delle scene di isteria quando gli addetti ai controlli della compagnia aerea low-cost bloccano un viaggiatore perché il bagaglio supera i limiti imposti, e la conseguente divisione degli altri passeggeri in fazioni pro e contro regolamento, con l’isteria che da personale diventa collettiva:
“Sono solo due chili in più, fallo passare quel poveraccio”
“Io rinuncio sempre a portare qualcosa per restare nei dieci chili, perché lui non dovrebbe?”; “Signora hostess, e quell’altro che prima ha lasciato passare con il borsone, eh? Eh?”
“Se lo fanno passare, la prossima volta attacco una maniglia alla schiena di mio figlio e mi risparmio un biglietto”.
No, c’è un altro fenomeno, un’altra rivoluzione culturale che allontana l’aeroporto dalla definizione di nonluogo per avvicinarlo a quella di luogo antropologico: il parcheggio low-cost.
Oggetto di desiderio dell’esercito di viaggiatori low-cost. Il parcheggio low-cost è situato in genere in una zona desertica vagamente dalle parti dell’aeroporto. L’esiguo numero di posti disponibili e l’elevata differenza di prezzo rispetto ai parcheggi più vicini (che vantano spesso nomi creativi come “Kiss and Fly” “Heart and Love” ma assolutamente mai “Pay for Parking”) lo rende ambitissimo e quasi sempre occupato. 
parcheggio low cost
(via zingarate) Che senso ha dare dei nomi assurdi ai parcheggi? Quando mi ci sono trovata davanti ero in imbarazzo. Qual è quello più economico? E quello più vicino? Mah...a Celentano l'ardua risposta.
Ma il viaggiatore low-cost è istrionico e pieno d’inventiva (qualcuno s’è fabbricato una giacca con diecimila tasche imbottite dove ci puoi trasportare un intero servizio da tè della Royal Albert) ed è dotato di capacità di organizzazione superiori alla media.
Ecco dunque svilupparsi tecniche e metodi appositi per accaparrarsi un posto nel parcheggio low-cost.

Regola numero 1: ARRIVARE PRESTO, MOLTO PRESTO.

Sì, perché tu che sei furbo pensi: l’importante è arrivare presto, magari con ben un’ora di anticipo. Ma questo ti porterà soltanto a fare mezz’ora di coda ai cancelli, fissando speranzoso la sbarra che non si alzerà finché, rischiando ormai di perdere il volo, ti rassegnerai a cercare un posto nell’esosissimo parcheggio “Hit and Run”, dodici euro la prima mezz’ora e altri dodici ogni ora successiva.
No, arrivare presto non basta. Bisogna arrivare prima. Non importa che il tuo volo decolli alle diciannove e trentasei e il sole d’agosto sciolga le pietre in pozzanghere grigiastre: a mezzogiorno e quarantacinque tu sei già lì, fermo in coda lungo la strada che conduce al parcheggio. Le auto davanti a te sono vuote scatole di latta che riflettono i raggi del sole: guidatori e passeggeri languono lungo il marciapiede, la mano tesa sopra le sopracciglia, lo sguardo esteso verso l’orizzonte dove il campanile solitario della torre di controllo annuncia la presenza, molto molto più in là, dell’aeroporto.
Colto da sindrome dell’ascensore, quell’istinto che ci porta a voltarci nella direzione in cui la maggior parte degli altri esseri umani intorno a noi è rivolta, smonti dall’auto e prendi posto anche tu sul marciapiede, in ultima posizione. Inizi a chiederti che cos’è che guardino, tutti gli altri, con tanto palese interesse. E te lo chiedi così a lungo e così intensamente che scoppieresti se non rivolgessi la domanda al tuo vicino di postazione. Ma come chiedere senza fare la figura del pivello? Dato che tutti sembrano in attesa di qualcosa, butti lì un: “Ancora niente, eh?”.
Il Vicino ti guarda inarcando un sopracciglio, senza nemmeno tentare di nascondere un sorrisetto. “Il Bologna è sempre in ritardo” dice.
“Ah, non sapevo che giocasse qui”, ribatti. L’altro non risponde, e quando la divisa bianca e blu dell’AirBus della Ryanair compare sulla pista d’atterraggio, lontano laggiù, e la fila di aspiranti parcheggianti pocopaganti erompe in gridolini di giubilo e applausi, ti stupisci di quanti tifosi del Bologna ci siano dalle tue parti e di come tu non lo sapessi.
Non puoi esimerti dall’applaudire a tua volta (dannata sindrome dell’ascensore). Il Vicino se ne accorge e ti dice: “Non si scaldi. Il volo da Bologna libera sì e no tre posti”.
Dunque “il Bologna” non si riferiva alla squadra di calcio, bensì al volo!
Prima lezione: arrivare prima non è sufficiente. Per accaparrarsi un posto nel parcheggio low-cost è necessario essere sincronizzati con i voli in arrivo per essere lì quando i passeggeri sbarcati rientreranno in possesso delle proprie automobili.

Mentre il folto gruppo di astanti segue da lontano, con il fiato sospeso, le operazioni di sbarco che si intravedono tra le maglie a rombo della rete di recinzione dell’aeroporto passeggi con nonchalance verso l’imboccatura del parcheggio. Qualcuno ti lancia un’occhiata che ti mette a disagio, ma per non più di un istante, poiché è ovvio che tu non possa saltare la fila: ci sono venti auto in colonna prima della tua e la prima è infilata fino a un millimetro dalla sbarra. Il display che conta i posti disponibili segna 0. Il primo della fila, ammirato con deferenza mista a invidia da tutti gli altri, svetta gonfiando il petto in prossimità del semaforo rosso. Sa che il suo turno verrà a breve e nel suo sguardo trionfale scorgi una venatura di tristezza. Il suo periodo di gloria sta per finire. La condizione di primo della fila che lo rendeva speciale, invidiato, ammirato sta per cessare e diventerà presto un viaggiatore anonimo, perso - questa volta sì - nel nonluogo del settore partenze.
A un tratto tutte le teste si voltano all’unisono. La sensazione che tutti abbiano smesso di respirare è palpabile. Attraverso la recinzione si intravede un corpo che avanza ballonzolando sul marciapiede. Possibile che un passeggero sia già arrivato sin lì? La scaletta è ancora agganciata all’aeromobile, quindi le operazioni di sbarco non sono concluse. Che si tratti di un pilota, un politico, un poliziotto fatto sbarcare per primo? La tensione sale mentre la sagoma si ingrandisce, acquista spessore. Il primo della fila suda come una candela in un forno. Poi la folla prorompe in un “Baaaah” corale. La misteriosa figura in avvicinamento altri non è che un tizio che fa footing. Parte un parlottio confuso fatto di “Lo sapevo”, “Ma figurati se”, “Con la scaletta ancora lì”, “Però per un attimo”, “Ma va’, volevo vedere se ci cascavi”.
Nel frattempo un’altra macchina s’è aggiunta alla coda. La scorgi appena allungando lo sguardo sulla colonna di mezzi che non sfigurerebbe in una inquadratura del TG1 sull’esodo di agosto. Il guidatore smonta dall’abitacolo e cammina lento verso l’imboccatura del parcheggio. Guarda gli aspiranti parcheggianti come se fossero strambi animali di uno zoo.
Il Primo gonfia il petto ancora di più. È come se avesse ingoiato una mongolfiera. L’ultimo arrivato si ferma al suo cospetto, lo contempla, osserva la sbarra. Grattandosi la zucca pelata con una mano e accarezzandosi la pancia prominente con l’altra, l’ultimo arrivato fa un cenno con il mento al Primo della fila e chiede: “Lei è il custode?”
La folla esplode in un boato scandalizzato, al Primo si rizzano i peli sulla schiena, si irrigidisce tutto e incespicando sulle parole per via delle zanne che gli sono spuntate risponde: “Io sono il Primo-della-fila!”.
L’ultimo arrivato si stringe nelle spalle, supera il Primo senza degnarlo di un ulteriore sguardo ed entra un passo dopo l’altro nel parcheggio. Tutti ne seguono la traiettoria con lo sguardo, dimentichi del Ryanair da Bologna e dei suoi passeggeri. Quando la sua figura scompare, inghiottita dai tettucci dei SUV alti come roulotte, parte un chiacchiericcio fatto di “Ma che vuole?”, “Ma dove va?”, “Ma da dove viene?”, che si interrompe soltanto quando l’ultimo arrivato sbuca, correndo trafelato, tra le file di auto. In men che non si dica si ritrova di nuovo a tu per tu con il Primo. “Ci sono due posti liberi” gli dice. “Forse tre. Perché non entra?”.
Il Primo risponde che non può entrare. Che il sistema è automatico e finché il semaforo rimane rosso nessuno può entrare, e il semaforo resterà rosso finché qualcuno non uscirà dal parcheggio.
Tra le teste che annuiscono e i mugugni di assenso si fa strada una voce che stentorea esclama: “Però…” lasciando volutamente fluttuare i tre puntini di sospensione. È il tuo Vicino di fila che avanza, con l’indice alzato e il fare impettito. “Però una volta” continua quando è faccia a faccia con il Primo, “una volta un’auto ha lasciato il parcheggio, ma il semaforo non è diventato verde”.
“Bugiardo” grida qualcuno dalle retrovie, ben nascosto, con la voce rotta dalla paura.
“Eretico!” tuona il Primo, puntandogli contro l’indice.
“Non è possibile, vero Ernesto?” chiede una signora concitata al marito. “Vero che non è possibile?”
Sospiri di sollievo giungono dalla folla. Il Vicino si stringe nelle spalle. Si avvicina al Secondo della fila. “Lei dove va?” gli chiede.
“A Bergamo” risponde quello, guardandolo con diffidenza.
Il Vicino scuote la testa, facendo “tsk tsk tsk”. E si allontana.
Ha quasi superato la seconda auto, quando il Secondo gli grida: “Perché?”. Allora il Vicino torna sui suoi passi. Dice: “Il Bergamo, vede, parte tra quaranta minuti”.
“E allora?”
“Eh, ho paura che non ce la faccia a prenderlo. Finché arrivano quelli del Bologna…”
“Finché arrivano” ripete il brusio della folla. “Chissà quanto ci mettono”; “Lo perde, sicuro lo perde”.
Il Secondo della fila guarda il Primo, implorando aiuto e consiglio con gli occhi. Ma il Primo non abbassa la testa. Il Secondo tenta una resistenza stoica. Serra i pugni, stringe i denti. Trema come un ATR nella bora. I mugugni continuano. Infine, la paura di perdere il volo ha la meglio: il Secondo entra in auto, accende, fa manovra e va via, a infilarsi dritto tra le fauci del temibile “Hit and Run”. Il brusio si spegne, volti illuminati dal sole sorridono al Vicino, vero eroe dello scorrimento della coda, che torna al suo posto esibendosi in ripetuti, profondi inchini.
L’Ultimo intanto sta esaminando il citofono in prossimità della sbarra. “C’è un telefono qui” dice. “Adesso chiamo e dico che ci sono due posti liberi.”
L’ex Terzo, che ora è divenuto Secondo e ha pertanto acquistato facoltà di parola, gli risponde che è inutile, che il parcheggio è totalmente automatizzato.
“Ma io voglio provare” dice l’Ultimo con il dito già premuto sul pulsante di chiamata.
“Le dico che è inutile!” insiste il Secondo.
“Ma se vuole provare…” conclude benevolo il Primo.
Tra sputacchi e gracidii l’addetto che risponde al citofono spiega che non può azionare la sbarra. Il Secondo dedica all’Ultimo un’eloquente alzata di sopracciglia e l’Ultimo torna lì, accanto al Primo, a guardare l’orizzonte accarezzandosi la pancia.
“E quello lì?” bisbiglia qualcuno a un certo punto.
Tutte le teste si voltano in un’unica direzione, quella sbagliata, da cui giunge un solitario viaggiatore armato di trolley.
“Scusi” fa il più coraggioso quando il viaggiatore si è fatto più vicino. “Ma lei da dove viene?”
Il viaggiatore guarda per qualche istante la lunga coda di auto che si snoda apparentemente per chilometri e l’esercito di persone che attendono sul marciapiede. “Ho parcheggiato laggiù” risponde indicando con il pollice un punto imprecisato alle proprie spalle.
Il gelo che si spande su tutte le persone ferme in coda è palpabile. Possibile che tutti siano stati fregati, che sia sufficiente parcheggiare un po’ più in là, in mezzo alla strada, per evitare sia le code che le attese che il pedaggio?
Poi una voce si leva dal centro della coda. “Ma è divieto di sosta!” grida.
Parte una selva di commenti: “Giusto. È divieto”. “Gliela portano via. Lo sa che gliela portano via?”
“Ma no” fa il viaggiatore. “L’ho lasciata lì altre volte”.
Di nuovo silenzio. Poi una nuova voce giunge a spargere consolazione sulla gente preoccupata. “È stato fortunato!” dice.
Riparte il chiacchiericcio. “Sì, fortunato”. “Fortunato, fortunato”. “Mettono le multe, lì”. “Portano via le auto, lì”. “E poi ci sono i ladri”. “Ma vuoi mettere a lasciare l’auto dietro la sbarra? Con le telecamere?”
Il viaggiatore si allontana scuotendo la testa. Il brusio si quieta.
Poi di nuovo la tensione della coda si alza, si trasforma in emozione. L’attesa diviene trepidazione mentre un volto appare dalla curva. Il rumore delle ruote di un trolley trascinato sull’asfalto giunge subito dopo, a dare ulteriore conferma alle aspettative di tutti. È una signora minuta che avanza impacciata trainando una minuscola valigia rosa, il busto sbilanciato in avanti nello sforzo di mantenere un’andatura decente. La folla inneggia, la sostiene come farebbe con un ciclista all’arrivo di una scalata. Qualcuno la incita battendo le mani. Le regalano sorrisi che brillano come flash di macchine fotografiche. Il Primo della fila la attende come l’intervistatore fa con la diva sulla passerella di Cannes.
Lei dispensa sorrisi. Dice poche parole, qualche battuta di circostanza: “Vorrei liberare più posti, ma purtroppo ho soltanto un’auto”.
Il pubblico le sorride comprensivo. Tutti vorremmo debellare la fame nel mondo ma sappiamo che non è faccenda alla portata di uno solo di noi.
La diva scompare, ricompare a bordo di un’utilitaria, ansiosa di mostrarsi umile come un politico prima delle elezioni. Il Primo è già in auto, attende con il braccio proteso dal finestrino l’apparizione mistica del biglietto che aprirà la sbarra. Il semaforo diventa finalmente verde, l’auto sgomma e già dietro di essa è pronta un’altra, quella di chi fino a pochi minuti fa era terzo e adesso si ritrova a tu per tu con la sbarra.
Dopo aver parcheggiato, l’ex primo della fila ricompare a piedi, trainando un trolley cinese sbrindellato. Sorride e saluta ma nessuno gli sorride di rimando  e allora guarda l’orologio da polso, sgrana gli occhi come accorgendosi di quanto sia tardi, abbassa la testa e accelera il passo.
E così, tra sfilate e sfottò, partite di calcio ascoltate alla radio seduti in cerchio sul marciapiede, panini al tonno condivisi con coloro le cui viscere rumoreggiano più forte, leggende metropolitane sulle sbarre che si abbassano di colpo tranciando il tettuccio delle auto in transito e tentativi di corruzione, atterrano il Torino e il Pisa e persino il Francoforte.
Quando il sole si abbassa all’orizzonte, le ombre si allungano e una soffice brezza prende a soffiare da est ti ritrovi Secondo nella fila, erede per linea diretta del trono del semaforo. Il Primo è già in auto, il biglietto quasi tra le sue mani. Il Terzo ti esorta a entrare subito dietro il Primo. “Vagli dietro!” grida. “Se gli stai vicino la fotocellula non fa abbassare la sbarra e tu entri insieme a lui”.
Ti precipiti in auto. È una buona idea: dopotutto il tuo volo parte tra venti minuti e ogni istante risparmiato ti avvicina alla possibilità di prenderlo. Il semaforo diventa verde. Ti attacchi al paraurti dell’auto che ti precede, tremando per la paura. E se la sbarra si abbassasse lo stesso? Se finissi schiacciato dentro l’abitacolo come carne Simmenthal? Ma non hai tempo per pensare. Il Primo parte e tu lo segui e BAM! Come per magia sei dentro. Nel parcheggio low-cost.
L’aria è più pura, qui. Mentre zigzaghi alla ricerca di un posteggio un Eden che hai violato con una furberia di cui parleranno le genti a venire. Non sei soltanto entrato in un parcheggio low cost: sei entrato nel mito.
All’uscita ringrazi il Terzo, ora divenuto Primo. A un certo punto, però, ti sorge un dubbio. E allora gli chiedi: “Scusi, ma poi come faccio a uscire dato che non ho preso il biglietto?”
“Eh” fa l’altro senza staccare gli occhi dal semaforo. “Paghi cento euro di multa, no?”.
Ti allontani, frastornato. Mentre avanzi verso l’aeroporto, quel nonluogo che è laggiù da qualche parte, pensi che sei stato fregato ma non te ne importa. Sei entrato nel parcheggio low-cost. Sei stato Secondo e Primo della fila contemporaneamente. Hai trascorso metà del tuo primo giorno di ferie in coda e hai conosciuto persone che non dimenticherai facilmente. E pensi ad Augé e a quanto fosse in errore. A come l’uomo renda antropologico qualsiasi luogo. Alla rivoluzione low-cost. Che è una gran bella cosa, a saperla prendere con filosofia.

1 commento:

  1. Si può sempre lasciarla in città è prendere l'autobus per l'aeroportoto risparmi tempo e denaro. Iparcheggi liberi in città non sono ne più e ne meno sicuri dei parcheggi low cost.
    Io faccio sempre cosi.

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